SULLA BELLEZZA E IL SUO MANIFESTARSI IN ARCHITETTURA di Adriana Gloria Marigo - su L'Estroverso
Care amiche, cari amici, vi proponiamo un bellissimo pezzo di Adriana Gloria Marigo pubblicato su L'Estroverso. Buona lettura.
Un
uomo che viva pienamente la dimensione umana – l’uomo comune, come
l’uomo immerso nella responsabilità culturale e sociale – non può
prescindere dall’interrogarsi su alcuni temi importanti ed essenziali
che marcano l’epoca della sua presenza al/nel mondo.
L’esistenza
del suo interrogativo è antichissima: prende consistenza dal momento in
cui esce dalla pangea del sentire e si affaccia sull’inquieto tersore
della ragione. In quel momento, liberato dal terrore animico, s’avvia al
cospetto di un nuovo terrore – quello delle presenze che chiedono
risposte esaurienti, definitive, acquietanti alla luce di uno sguardo
che si promuove come irraggiamento di chiarezza, scioglimento del nodo
che raggruma l’accadere e il vivere – che tuttavia ha la possibilità di
trovare conforto nella parte del sentimento che ha attraversato
l’arcaicità del suo stesso divenire.
Questi
due movimenti – della ragione e del sentimento –, dopo i millenni
occidentali della dualità, sono oggi implicati – per maturazione di
conoscenza, conseguente sapere – nelle interferenze reciproche, così da
dimostrare l’impossibilità della separatezza nell’accoglienza della
domanda, nell’elaborazione della risposta.
Su
questo scenario si presenta l’azzardo della Bellezza. Molto più di
altri temi cari alle domande ultime, la Bellezza si dimostra difficile
da inscrivere entro un paradigma cui rapportarsi per ottenere la
certezza sul nostro agire, sulla bontà dell’azione in quanto, se l’idea
di Bellezza è immutabile e universale, non così la sua manifestazione,
soggetta al Tempo e allo Spazio.
Tuttavia
parlare di Bellezza ci permette di introdurre l’uomo all’incontro con
la parte migliore di sé, farlo sentire in una relazione luminosa con se
stesso e con l’altro, partecipe di qualcosa che si eleva e fluttua e in
certo modo ricade sulla barbarie di ogni tempo.
Scrivendo
sulla Bellezza mi viene in soccorso il breve saggio di Guido Brivio
posto a conclusione del piccolo magnifico libro “Cinque meditazioni
sulla bellezza” il cui autore – François Cheng, nato in Cina nel 1929
vive a Parigi dal 1949 ed è, primo e unico asiatico, Accademico di
Francia – affronta il tema individuando certi punti fondamentali e
comuni a tutte le culture, e che sono a testimoniare l’esigenza di
affidarci all’etica affinché l’estetica possa attingere a tutte le sue
profondità.
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“La bellezza stessa che ci troviamo di fronte ogni giorno, in tutte le sue forme, per quanto inconsapevolmente, continua a lanciarci una sfida. Ma perché noi sembriamo non volerla raccogliere – o il modo in cui la raccogliamo sembra soltanto occasionale, per non dire deviato?”
“Qual è il vero senso della bellezza che ogni giorno appare – nel rinnovamento inesausto e ostinato di un miracolo
– davanti ai nostri occhi più o meno appannati? Perché la nostra
bellezza sembra aver perso la sua verità? Perché da immagine della
verità e del bene è divenuta ai nostri occhi sintomo di illusione e
apparenza? Come ha potuto consumarsi questo passaggio? ”
“Una
risposta forse di questa transizione (…), si può leggere nel passaggio
(…) dall’antichità al cristianesimo e dal mondo arcaico del mito a quello moderno del logos.
Finché l’innocenza divina dell’apparire non era separata e contrapposta
all’esperienza della verità e della profondità, finché il mondo era
considerato “pieno di dei” e la realtà visibile La sua epifania, il
divorzio fra bello e vero non era ancora consumato né immaginabile, e il
fantasma della trascendenza non aveva ancora cominciato a popolare i
sogni inquieti della metafisica. Ma con lo spostamento del vero e del
sacro al di là della vita (…), questo divorzio comincia a instaurarsi. A
mano a mano che la verità e la bellezza si spostano verso l’invisibile,
il visibile si riduce ad apparenza e illusione, fino a divenire (…)
simulacro e stereotipo, forma senza contenuto e copia senza originale
(…), immagine di una immagine, che si rivolge a se stessa invece di rispecchiare l’intensità di cui è portatrice.
Una bellezza che si ponga come mera performance estetica, o come espressione di una realtà esclusivamente contingente, che non sia capace di testimoniare una verità essenziale,
non può essere vera bellezza. Una bellezza che esprima violenza e
inumanità non può essere vera bellezza (…). Una bellezza, cioè, che non
sia in grado (…) di risalire alla propria fonte e, a partire da quella,
rinnovarsi restituendosi al mondo, per condurre poi nuovamente a quell’origine – in un ciclo virtuoso che è l’opposto del circolo vizioso del modus aestheticus contemporaneo – non si può dire davvero bella.
La vera natura del bello – e dell’arte – è la rivelazione di una dimensione essenziale, il dischiudimento del regno spirituale del bene e della verità.
Perciò
l’appello alla bellezza non si riduce (…) all’invocazione di un dominio
propriamente estetico ma si trasforma nell’affermazione di un compito
autenticamente etico e spirituale. Parlare di bellezza significa
interrogarsi su uno strumento fondamentale della sua comprensione del
mondo (…) oltre che sulla modalità essenziale del darsi del mondo in
quanto mondo. Riconoscere la trasparenza del bello alla verità e al bene
significa riconoscerne la natura propria e la necessità intrinseca.
Negare questo legame significa in fondo (…) negare la realtà della
bellezza stessa.
Questo “… modello di bellezza e di arte (…) è eminentemente naturale in
quanto vitalità creatrice inarrestabile da un lato (…) e slancio
retrogrado di ogni vivente verso la pienezza del proprio essere (…)
dall’altro.
È (…) in un certo senso l’unica o l’ultima speranza di redenzione per il mondo contemporaneo.
Ma
si può credere davvero che la bellezza salverà il mondo? (…) Ma che
cosa significa questo “salvare il mondo” (…) ? Forse possiamo cercare la
risposta del primo e più celebre interprete di Dostoevskij, Vladimir
Solov’ev, che scrive:
”Il
Bene, se diviso dalla Verità e dalla Bellezza è soltanto un sentimento
indefinito, un impulso privo di forza; e la Bellezza senza Bene e Verità
è soltanto un idolo. La Bellezza è quello stesso Bene e quella stessa
Verità incarnata in una forma viva e concreta.”
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Poiché
è divenuto chiaro e diffuso – benché non largamente praticato - in
questi ultimi decenni il concetto che nella “forma viva e concreta” di
cui scrive Vladimir Solov’ev discende la Bellezza in quanto incarnazione
di Bene e Verità, è significativo prendere in considerazione i luoghi
dell’uomo, gli spazi in cui si muove e risiede, quelli lasciati alla
desertificazione, o alla suburbia, pensare i luoghi destinati alle opere
del lavoro e alle manifestazioni della creatività: è importante e
dichiaratamente necessario, urgente, pensare gli edifici alla luce non
di una bellezza ideale che rinnegherebbe quanto fin qui espresso e cioè
il patto inscindibile tra Bene e Verità, ma a quella che tiene conto
dell’uomo, del tempo e i suoi oggetti.
L’Architettura
è vocata a questo compito almeno per due motivi, apparentemente ovvi,
ma che in realtà non lo sono poiché le testimonianze del degrado di
certi ambienti – non esclusivamente tipici di questo nostro tempo, ma
più incidenti nella loro tipicità – dimostrano quanto l’arte di
costruire soffra di una inopportuna idealità e forse di una presunzione
di grandezza che ricade sulla qualità della vita sociale e individuale:
la
sua ascendenza umanistica in quanto si occupa dell’uomo in rapporto
allo spazio, in primo luogo; i mezzi tutti – dalla progettazione
all’esecuzione – di cui si avvale per costruire i luoghi destinati
all’abitare, in secondo.
In
questi due aspetti subito evidenti e interdipendenti si incontrano e
attraversano l’ésprit de finesse e l’ésprit de géométrie di cui parla
Blaise Pascal.
Architettore
chiamerò io colui, il quale saprà con certa, e maravigliosa ragione, e
regola, sì con la mente, e con lo animo divisare; sì con la opera recare
a fine tutte quelle cose, le quali mediante movimenti dei pesi,
congiungimenti, e ammassamenti di corpi, si possono con gran dignità
accomodare benissimo all’uso de gli homini
Leon Battista Alberti, De re aedificatoria, 1450 circa
L’architettura è il gioco sapiente, rigoroso e magnifico dei volumi nella luce
Le Corbusier, Vers une architecture, 1923
Chiarezza costruttiva portata alla sua espressione esatta. Questo è ciò che io chiamo architettura
Mies van der Rohe, 1925
L’architettura
è l’arte di dare rifugio alle attività dell’uomo: abitare, lavorare,
curarsi, insegnare e, naturalmente, stare insieme. È quindi anche
l’arte di costruire la città ed i suoi spazi, come le strade, le
piazze, i ponti, i giardini. E, dentro la città, i luoghi di incontro.
Quei luoghi di incontro che danno alla città la sua funzione sociale e
culturale. Ma naturalmente non è tutto. Perché l’architettura è anche
una visione del mondo. L’architettura non può che essere umanista,
perché la città con i suoi edifici è un modo di vedere, costruire e
cambiare il mondo. E poi l’architettura è struggimento per quella cosa
bellissima che è la bellezza. Ma questa è un’altra storia ed è
impossibile da raccontare.
Renzo Piano
Pensando
la relazione che la Bellezza intrattiene con l’Architettura è naturale
dichiarare che l’arte di costruire case è in stretto rapporto con la
natura e con lo spirito dell’uomo, giungendo nemmeno tanto
implicitamente a osservare che ne consegue grande responsabilità per
coloro che progettano luoghi abitativi, scelgono materiali da
costruzione, segnando il destino urbanistico, la qualità e la
soddisfazione della convivenza degli uomini, sia come cittadini sia come
individui.
Tenendo
presente che la Bellezza affiora nella forma – nella forma della pietra
ha la sua consacrazione non come semplice immagine abbagliante e
passeggera, ma come testimonianza di presenza universale ed eterna –
come venendo da luogo remoto e profondo è da considerare quanto scrive
Krishnamurti a proposito del modo di emergere della Bellezza:
È la bellezza interiore che ci dà grazia, una squisita gentilezza nella forma e nel movimento esteriore.
In
relazione a questa affermazione discende una domanda che assilla chi
guarda con sguardo attento, indagatore, estetico nella sua accezione
etica: perché tanta bruttura, tanta accozzaglia di linee che
scompaginano l’orizzonte quando non lo violentano, perché una predazione
dello spazio e del verde, un ottundimento del respiro urbano, insomma
una affermazione della volgarità sulla quale ci spendiamo in
declinazioni di J’accuse se tutto questo annulla quella tensione a
realizzare la Grazia che è con Armonia la manifestazione della Bellezza?