Ho costruito un acquario
Loro
odiano i migliori, coloro i quali si distinguono per l’eccellenza. E dimmi: da
dove nasce quest’odio? L’odio nasce sempre dalla paura, in questo caso, dalla
paura di venire sorpassati, di rimanere indietro rispetto a chi inietta
ossigeno nelle vene carsiche della poesia. Loro odiano i senza maestri, coloro
i quali non s’affidano ad un gruppo, coloro i quali non hanno nessun debito di
riconoscenza, coloro i quali sono giovani e presuntuosi. Invidiano loro la
forza e la prestanza, ma soprattutto invidiano loro il futuro. Così, io
fabbrico scatole dove ficcarceli, dove possano starsene buoni e tapparsi la
bocca. Ho costruito un acquario per gli stronzi che galleggiano, sapete, quelli
che da una vita escono fuori allo sciogliersi della neve, quelli che si scandalizzano
per la parolaccia ma non provano vergogna nell’appropriarsi di un nome, e non
sudano amaro nel rapire un’identità, ma col ghigno dell’idiota si compiacciono
dal piano superiore, guardando dall’alto in basso i poveretti che s’accalcano intorno
alla loro cattedra chiedendo briciole di poesia, un rigo di racconto, un posto
tra le pagine di una fetida rivista. Ho fabbricato un sacello di latta dove
rinchiudervi tanti niente, quei niente che sanno amare soltanto con la rapina, che
tutto violentano col loro distinguersi dalla massa, quella massa di cui cercano
però il consenso, l’approvazione, il plauso, la verifica. Quella massa cui
sedersi in mezzo e dirigere l’orchestra e dettare il tempo e l’andamento. Ecco,
una prova del nove che dia premio o castigo, che scelga tra le righe il nuovo
Eliot, nascosto nella pagina imbrattata d’inchiostro, e doni attimi d’incenso
ai mecenati della rovina. Ho tessuto un sudario per i ladri del nulla, il nulla
che rimane dal ratto dei versi del poeta sincero, quello che tutti seguivano ma
che nessuno amava davvero, quello che lodavano davanti e irridevano di dietro, quello
che quello è scemo, è bacato nella testa, è un pazzo visionario, un illuso che
mai mette sale nella zucca. Eppure come cagnolini lo seguivano, ché lì c’era la
farina, la farina “te quandu la mattra è china”, dei fagioli conditi con lardo
e con olio buono, mentre per gli altri c’era solo pane duro da inzuppare nel
brodo vecchio di tre giorni. E lo seguivano gli scribacchini, seguivano il
poeta, lo seguivano i copioni, i lecchini, i lagnoni, che altro non facevano
che lamentarsi della vita grama del Salento o ne innalzavano, per convenienza,
la tradizione. E tu, poeta, poeta vero, poeta che te ne sbattevi delle parole
dei mediocri e non ti curavi della bella impressione sulla gente, poeta che
tutti fulminavi con lo sguardo e con parole di tuono, dove sei poeta? In quale
acquario t’hanno chiuso? In quale teca? Tu che dicevi “Fate fogli di poesia”, tu
che dicevi che sotto la neve c’è il pane, tu che da una città portavi via
trofei e della Betissa narravi le sorti, dimmi poeta, quante volte hai
maledetto le tue parole? Quante volte ti sei rigirato nella tomba? Quante volte
nel vedere il tuo lascito andare a puttane per colpa di pochi idioti e di
zotici egoismi hai pensato: “Ce cazzu nculu cappai cu quisti!” A quanti idioti
diresti: “State zitti”? A quanti altri diresti: “Prendetevi una zappa”? Ma no,
poeta. A quegli idioti non daresti in mano la zappa. La zappa serve alla terra
come la penna al foglio, per usarla occorre cervello, un cervello fino,
dicevano ai tempi. A questi la zappa non si dà. A questi si dovrebbe dimezzare
la razione di paglia. Ma non si può. Perché la paglia loro ce l’hanno già: lu
ciucciu nuce la paja e lu ciucciu se la raja.